La genesi della villa va
collocata in due fasi comprese tra gli anni 1717-1735 e 1735-1765, periodi
nei quali Eugenio Durazzo e il nipote Gerolamo commissionarono numerose
opere edilizie in Albissola.
Ma è alla seconda fase, dopo le
ristrutturazioni di un complesso di stabili di epoca precedente, che si
deve l'inizio della costruzione del palazzo vero e proprio, per il quale
Gerolamo Durazzo fece eseguire il progetto da un architetto,
verosimilmente genovese, con l'aiuto, per le misurazioni e l'edificazione,
di capi d'opera appartenenti a maestranze locali.
Questa
prima costruzione, denominata "Palazzo dell'Olmo", doveva
presentarsi come un edificio di forma cubica, con due ali brevemente
arretrate ed un portico, lungo il pian terreno, con ingresso. Allo stesso
anno risale la ristrutturazione di un preesistente "casino".
Nel 1736
fu ultimata la facciata. Due anni più tardi vennero iniziati i lavori per
la costruzione dei giardini.
Morto
Gerolamo Durazzo, la villa venne trasmessa alla figlia Maria Maddalena,
moglie di Marcellino Durazzo, doge di Genova, e da questa alla figlia
Maria Francesca, la quale nel 1805 la donò al figlio Marcello. Fu questi
a vendere nel 1821 la proprietà a Gerolamo Faraggiana, nobile di Novara.
La villa
pervenne quindi per successione diretta a Giuseppe Faraggiana. Morto
questi senza prole, il nipote ex frate, senatore Raffaello Faraggiana, gli
succedette nella proprietà dell'intera tenuta, che trasmise al figlio
Alessandro. Quest'ultimo, avendo avuto la medesima sorte dell'avo
Giuseppe, decise, prima che morte gli sopraggiungesse, di lasciare la
villa albissolese al Comune di Novara (1961).
Si tratta
di un chiaro esempio di villa ligure del Settecento, dalla volumetria
circoscritta, immagine in esterno della rigorosa e simmetrica
distribuzione interna e dei prospetti, dalla demarcazione netta dei piani,
attraverso cornici orizzontali avvolgenti: tutti elementi di indubbia
derivazione alessiana, che ci mostrano il fitto e proficuo scambio di
esperienze architettoniche, e più ampiamente culturali, tra Genova e il
Savonese.
Segno di una tendenza stilistica
successiva, invece, è l'aggiunta di due corpi simmetrici, tenuti
arretrati rispetto alla facciata. Per quanto
riguarda la datazione delle fasi costruttive, i primi veri lavori di
edificazione di un palazzo padronale si possono far risalire al 1735 per
volere di Gerolamo Durazzo. Documenti pervenuti attestano in tale data le
misurazioni compiute dai capi d'opera, di cui ci è giunto anche il nome:
mastro G. Costa e mastro Orsolino (si tratta presumibilmente di maestranze
locali). Lo scavo delle fondamenta iniziò comunque il 5 luglio
("misure de lavori per i fondamenti") e proseguì fino ad
autunno inoltrato. Soltanto col
sopraggiungere dell'anno nuovo fu terminata la facciata, con fasce
orizzontali, per opera di F. Gebino e G . Testa e con motivi a stucco, dei
quali furono autori G. Costa e S. Gervasio, anch'essi artisti del luogo.
Interessante
è il motivo decorativo degli esterni, dovuto all'uso di cornici modanate
e timpani a rilievo, di bugne sugli spigoli e di medaglioni a stucco, fra
i timpani e i cornicioni soprastanti. Soluzione quest'ultima sicuramente
inconsueta, rispetto ai trompe l'oeil tipici della decorazione della villa
suburbana genovese, ed evidenziante piuttosto una certa influenza francese
nel gusto del committente, peraltro già riscontrabile nella coeva villa
Durazzo a Cornigliano. Le due ali
laterali, sopra le quali corrono lunghe panoramicissime terrazze, vennero
aggiunte in un momento compreso tra il 1740, anno in cui Matteo Vinzoni
redasse una prima pianta di Albissola Marina, ove è presente il solo
corpo di fabbrica centrale con due brevi corpi laterali ed il 1773, quando
Gerolamo Brusco disegnò nella sua carta la villa già per intero.
Nel 1751 sono documentate alcune
spese, cui forse si potrebbero proprio far risalire i lavori per le
gallerie e le terrazze: "28 giugno: provvista di marmi da Pellegrino
Staffetti: 600 quadretti, 10 vasi con i suoi piedi, 61 balaustri, scalini,
medaglioni, braghettoni per la peschiera".
Quando nel secolo successivo
presero dimora nella villa i Faraggiana vennero commissionati non solo
interventi di restauro sul palazzo, quali il ritinteggiamento di gran
parte degli esterni e la decorazione a finti pergola ti dei muri di cinta
della cisterna e del cortile della scuderia, ma anche l'edificazione di
nuove costruzioni, come il tempietto neoclassico, in cui è ricavato un
bel ninfeo ( oggi adibito a ripostiglio ). Quindi, secondo criteri che
collegavano culturalmente la villa all'azienda agricola padronale
circostante, si progettarono il frantoio e la distilleria del Sidro nel
padiglione per la lavorazione del gelso, sopra un'antica cantina (attuale
casa di riposo ).
Molte le
ristrutturazioni di case rurali, alcune ad opera dell'ingegnere Giuseppe
Frumento di Savona che nel 1877 rialzò la palazzina al Monte e nel 1878
curò il progetto per "La casa detta il granaio", identificabile
con l'attuale trebbiatoio, abbellita di motivi decorativi a rilievo di
cornici e timpani, armonicamente mutuati dalla decorazione della facciata
della villa. Sempre del Frumento il progetto per il senatore Raffaele
Faraggiana, onde "ristabilire nell'esistente suo caseggiato
all'accesso orientale dell'abitato, quattro fabbriche di stoviglie e
costruire contiguamente quattro fornaci" .
Quanto
all'interno, lo schema distributivo presenta la consueta successione
spaziale: atrio, scala, loggia superiore, salone al piano nobile. Al piano
terreno, raccolte attorno all'ampio androne, trovano spazio quattro sale,
due sole delle quali visitabili, tutte risalenti alla fase di
ristrutturazione ottocentesca, con i motivi decorativi illusionistici
sulle volte dei soffitti a serre e pergolati, a sottolineare una
concezione di ideale proiezione dell'ambiente esterno nell'interno e, come
pure vedremo a proposito dei giardini, dell'interno all'esterno. Nelle
stanze, arredo d'epoca (XIX secolo) con qualche pezzo fatto pervenire da
palazzo Faraggiana a Novara, e, una pregevole tappezzeria in carta dipinta
del la metà Ottocento.
Lo scalone, che si diparte
dall'atrio non ha grande pregio artistico. Costruito sullo sventramento
del precedente per volere dell'ultimo proprietario, è concluso da un
grande lucernario e adornato dal gruppo del Ratto di Proserpina,
proveniente da un ninfeo e posto entro una nicchia ricavata contro la
parete della prima rampa. Al piano nobile la
struttura distributiva ruota, come per il pian terreno, attorno ad un più
vasto locale, il salone, ora "stanza della musica" perché vi
sono raccolti strumenti del XVIII-XIX secolo, che è l'unica sala, assieme
alla più significativa "stanza da letto detta di donna Francesca
Durazzo" , che mantiene l'originaria decorazione settecentesca. È
quest'ultimo un ambiente in cui traspare equilibrio nel rapporto tra le
dimensioni espresse in pianta e l'altezza del vano, decorato con lievi e
bellissimi stucchi policromi di una sensibilità pienamente rococò. È il
cosiddetto "barocchetto" ligure, ripreso nei motivi delle stoffe
che ricoprono l'imponente letto a baldacchino.
All'estremità opposta è invece
la stanza da letto di Raffaello Faraggiana, di gusto completamente
diverso, impostato sulla statica, ordinata sontuosità dello stile
"Impero" (si notino a chiarimento il letto dorato e la grande
specchiera). A fianco ad essa lo studiolo con pavimento di laggioni di
maiolica dipinta, uguale a quello della galleria a pian terreno.
Tipicamente ottocentesche le
altre sale, tra cui la biblioteca ancor ricca di preziosi volumi.
La descrizione della già citata
"galleria delle stagioni" nell'ala di ponente è stata
volutamente lasciata per ultima. La decorazione di questo salone è
imperniata sui temi iconografici di divinità boscherecce e cicliche:
così le statue ai due lati della galleria (le Stagioni), il Narciso e la
stessa specchiera monumentale posta al fondo, tutte opere di grande
rilievo del medesimo autore: Filippo Parodi; così i dipinti, attribuiti a
Carlo Giuseppe Ratti, pittore ligure della seconda metà del XVII secolo,
nella quinta e sesta campata della volta raffiguranti Diana e Atteone, la
caccia di Diana e il mito di Proserpina.
Il pavimento è ricoperto da uno
splendido "tappeto" policromo di piastrelle settecentesche di
ceramica. Inserita nell'ala di levante è poi
la cappella consacrata "sotto il titolo di Nostra Signora della
Misericordia" da M. Francesca Durazzo e Giuseppe M. Durazzo. Si
tratta di un ambiente dalle vivaci tinte cerulee con stucchi dorati di
gusto settecentesco. Notevole l'affresco di Giovanni Agostino Ratti, padre
di Carlo Giuseppe Ratti, raffigurante l'Apparizione di Nostra Signora
della Misericordia al Botta, confrontabile con quella analoga eseguita per
la cattedrale di Savona in occasione del secondo centenario
dell'apparizione.
Nella cappella sono tutt'oggi
conservati i paramenti sacri: pianete settecentesche con motivi flore ali
tipicamente d'epoca, e piviali di egual gusto.
Nel percorrere il lungo viale
d'accesso, il visitatore può notare con chiarezza il palazzo, alto sui
terrazzamenti geometricamente ripartiti del giardino, e la piana
circostante che, seppure oggi per breve appezzamento, ancora si estende a
levante della villa, ben visibile oltre l'imponente arco di trionfo. È
immediata la percezione di come felicemente si compenetrino l'intorno
rurale, necessario complemento alla struttura socio-economica della villa
suburbana ligure settecentesca e la casa nobiliare e il giardino, senza
che l'uno aspetto prevalga mai sull'altro.
Alle spalle del palazzo una tolta
macchia di bosco, che ricopre le pendici della collina, ben contrasta con
la regolare partizione delle siepi del giardino, mettendo ancor più in
rilievo il blocco rosso dell'edificio.
Si comprende qui quanto prima
accennato a proposito della maniera in cui mirabilmente l'esterno penetra
e pregna di sé l'interno, e di come parimenti lo spazio esterno sia
natura, cui l'intervento umano conferisce valenza di spazio
architettonico, quale estensione ideale di casa all'aperto.
E evidente qui come la
sistemazione del giardino, avvenuta per la maggior parte nel XVIII secolo,
sia stata progettata proprio con il precipuo scopo di "umanizzare il
paesaggio". I grandi cannocchiali prospettici dei viali calano sul
terreno una solida maglia di visuali incrociate secondo una classica
impostazione di linee ortogonali, tutte indicate da un preciso centro
ottico di riferimento. Concorre a questo sottile gioco di rimandi il
sapiente sfruttamento dei dislivelli del terreno, secondo una percorrenza
a salire in lenta progressione" (Ricchebono).
Infatti a partire dal 1737 il
giardino, originariamente sito sul lato ovest e chiuso da cancello, subì
importanti modificazioni che lo portarono verso il suo definitivo ed
attuale aspetto. A questa data deve essere ricondotta la costruzione dei
viali di raccordo della proprietà con la marina e la riva del fiume,
conseguenti all'acquisto fatto da Gerolamo Durazzo dei "siti
arenili" alla sponda del Sansobbia. L'acquisto era condizionato
dall'obbligo di terminare entro quattro anni il molo, già iniziato dalla
Comunità di Albissola, per riparo dalle alluvioni, e di proseguire una
strada pubblica fino al mare, lasciando però un passo aperto "a
comando pubblico" cioè ad uso del popolo, fissato da Maddalena e
Francesco Maria Durazzo nel " Viale di Mezzo", con cancello per
puro ornamento, ancora oggi esistente in via Salomoni.
I lavori di costruzione dei viali
proseguirono, come si ricava dai libri dei conti dei Durazzo, negli anni
1717, 1745, diretti da mastro G. Costa fino al 1742. Nel 1737 fu terminato
il molo, nel 1738 è la volta del passaggio pubblico, ed infine nel 1742
il portone in cima al boschetto con il "Portaro della Speranza"
e quindi la "Muraglia del viale che divide con la spiaggia del
mare". Tra il 1742 ed il 1744 nuove acquisizioni di terre segnano
l'espansione della tenuta Durazzo verso la sponda del Sansobbia ed il
mare, nonché in direzione Grana, e della Colletta.
Nella carta del Vinzoni
del 1733
il parco presenta già l'attuale espansione del fronte del palazzo con le
partizioni geometriche del giardino all'italiana, simmetriche all'asse del
nuovo accesso alla villa. All'iniziativa del
Faraggiana si deve invece la costruzione, all'inizio di questo secolo,
della parte di giardino immediatamente antistante il palazzo, coperta di
aiuole dalle forme irregolari, disposte attorno alla vasca centrale e
disseminate di piante d'alto fusto, per lo più cedri e magnolie.
Della statuaria settecentesca del
parco restano le fontane con Bacco e Diana incluse nella concavità dei
muri di cinta decorati con delicate policromie, rilievi di stucco di
influenza rocaille, cimose dalle sagome mosse e vaghi puttini. Dal muro
ovest si accedeva al terrapieno, ricavato a quota del piano nobile,
comunicante col retro della villa e sito alla base d'una grande cisterna,
sul cui bastione seguitava a correre il muro di cinta. Questo è
interrotto al centro da una grotta con ninfeo, ai cui lati sono collocate
due nicchie; quella a destra con statua di Apollo, l'altra modificata nel
corso dell'800 con l'erezione di una torretta, ospitante attualmente una
enorme statua, verosimilmente prima collocata sotto l'arco di trionfo.
Nel muro di sostegno del
terrapieno est del giardino, il cui parapetto si affaccia con vera
finestra sulla campagna sottostante, è ricavata un'altra piccola grotta
con ninfeo, che resta così proprio sotto il gruppo di Diana, posto sulla
fontana nell'estrema ala orientale del giardino.
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